MARIO FANTIN

RICORDI DI LUGLIO, MESE DELLA MONTAGNA


Estratto dal volume

Istituto Tecnico "Pier Crescenzi"

Primo Centenario 1863-1963"

ARTI GRAFICHE "F. CAPPELLI"

ROCCA SAN CASCIANO





Ricordi di luglio, mese della montagna


Luglio 1940. Sulla strada che, partendo da Bologna, passa per Porretta e scavalca l'Appennino, un gruppo di giovani in bicicletta, di buon mattino, sta procedendo allegramente verso le colline, verso le montagne di casa nostra. La scuola quest'anno è terminata precocemente e quel gruppo di ragazzi intende festeggiare con una scampagnata la fine degli studi. Sono stati tutti promossi, senza esami, poiché per l'eccezionale stato di guerra in cui I'Italia si trova da un mese appena, gli esami sono stati aboliti. Promossi con i soli voti dello scrutinio trimestrale; tutti ragionieri. Ragionieri di guerra, come diremo scherzosamente, negli anni successivi.

E' destino che i ragazzi vissuti vicini per anni, sui banchi della scuola, si incontrino sempre più raramente negli anni successivi. Spesso si perdono di vista completamente: la vita li disperde mentre i ricordi comuni si attenuano. Forse è proprio per questo, per tentare di continuare nella vita ad essere i ragazzi della IV C del "Pier Crescenzi", pronti ad essere uno per tutti e tutti per uno, disposti al suggerimento al compagno interrogato od all'aiuto concreto durante i compiti in classe, che hanno deciso di riunirsi ogni quindici giorni, per una scampagnata in piena spensieratezza.

Lo hanno deciso, anzi lo abbiamo deciso, il giorno stesso in cui la scuola finì. Nel momento stesso in cui sentivamo il vero sollievo di non dover pensare più ai libri, ci rendemmo conto che il periodo più spensierato della vita era già trascorso.

Ai nostri professori, tanto temuti in certi giorni, potevamo ora parlare con maggior consapevolezza, potevamo ricambiare il loro sorriso paterno senza alcun timore, da uomo a uomo. Ci rendevamo conto che essi avevano fatto del loro meglio per prepararci alla prova della vita.

Ora tutto questo era già lontano, già lasciato alle spalle come il frastuono della città lasciata al mattino.

Ognuno pedalava con lena, le fresche e verdi montagne dell'Appennino attendevano la nostra chiassosa invasione.

Luglio 1944. Pochi mesi dopo la fine della scuola è giunta per noi la chiamata alle armi. Ci siamo dispersi davvero da ogni parte, non due di noi che siano stati assegnati allo stesso reparto, con la medesima destinazione.

Io sono già da due anni in Montenegro. Le nozioni di fisica ed algebra, che ho imparate a scuola, mi servono ora a risolvere problemi di balistica relativi all'impiego dei mortai contro il nemico. La guerra, con i suoi orrori, ha travolto il mondo intero. Siamo disseminati su queste montagne ostili, braccati da uomini come noi, ma nemici, che a nostro turno insidiamo ogni volta che sia possibile. Nessuno, a scuola, ci aveva insegnato che avremmo potuto vivere giorni terribili come questi, e nessuno ci aveva consigliato come ci si possa comportare da veri uomini in questi frangenti. Quello che la scuola non ha insegnato, lo insegna talvolta l'istinto atavico e la vita stessa.

Luglio 1948. In questi giorni ho messo piede per la prima volta su di un ghiacciaio. E' il mio battesimo della montagna intesa come piacere dello spirito e contemplazione. Ne sono estasiato: tutto qui è meraviglioso. Non avrei mai immaginato, studiando geografia, valli, ghiacciai e montagne, che queste cose apparentemente così fredde e statiche potessero essere fonte di tanta gioia. Perché a scuola non ci è stato mai detto che esiste l'alpinismo? Forse perché è bene che ognuno lo scopra da solo per potersi integralmente innamorare della montagna come è successo a me.

Luglio 1954. Mi trovo da tre mesi nel Karakorùm, vicino a quell'Himalava che un tempo appresi vagamente essere in Asia.

Sapevo anche che l'Everest era la più alta montagna del mondo: 8848 metri. Nessuno ch'io ricordi, mi ha mai parlato del K2, la seconda montagna del mondo, di poco inferiore all'altra: 8611 metri di altezza.

Oggi lo so, anzi lo so da qualche mese, da quando sono entrato a far parte di questo gruppo di uomini che è giunto fin qui, dall'Italia, per scalare il K2. Che io abbia potuto essere fra questo esiguo numero di persone, dopo sei anni appena dall'aver toccato per la prima volta un ghiacciaio, è ancora per me motivo di meraviglia.

Sono qui, tutto è vero, ma non so ancora capacitarmene. Eppure stavolta la montagna è grande, immensa, e la partita iniziata dai miei compagni di spedizione è di una importanza estrema.

La marcia di avvicinamento è iniziata 90 giorni fa. L'attacco alle rocce della montagna si protrae già da 70 giorni. Fatiche incredibili sono già state compiute, silenziosi eroismi senza uguali hanno permesso di progredire lentamente con un tempo spesso infernale.

Uno di noi, Mario Puchoz, ha già lasciato la vita su questa montagna che ha già conosciuto altre sei vittime nei tentativi di scalata.

Tutto è estremamente serio, difficile, e sembra quasi impossibile spuntarla.

Sullo " Sperone Abruzzi " stanno maturando i giorni decisivi per il balzo in alto di tutto il materiale destinato all'impianto e rifornimento dei campi sopra la " spalla " della montagna. Le corde fisse compiono miracoli e sono basilari per la sicurezza degli alpinisti che salgono e scendono lungo la via " attrezzata ". Sulle placche rocciose della " piramide nera " qualcuno, sbilanciato dal carico, compie impunemente anche un piccolo " pendolo "... Chi è costretto a lasciare il carico, si ritrova con gli occhi pieni di lacrime. No, non è credibile che la fatica di salire su questa montagna sia cosi inumana! Nessuno di noi l'avrebbe mai immaginato! Le notti, nei campi, trascorrono in dormiveglia, più che in vero riposo. Sovente gli alpinisti si trovano seduti nell'illusione di riuscire a respirare meglio. Le lancette fosforescenti degli orologi al polso, consultate nel buio, danno sovente la deludente sensazione della interminabilità delle ore... Un viaggio al giorno, fra un campo e l'altro (300 metri di dislivello!), con 10-15 Kg. di carico, è sovente il massimo sforzo che l'altitudine consente ad ognuno. Il ghiacciaio e le vette circostanti sembrano sprofondare sempre più e gli uomini giungono ogni sera sfiniti al campo più alto. Talvolta, negli ultimi tratti, procedono carponi o in ginocchio, tesi nello sforzo di giungere ad ogni costo col carico. Senza di quello la presenza di un uomo non ha quasi valore. Gli alpinisti scrivono in questi giorni le pagine più belle e penose, nei loro diari. Fra poco non avranno tempo e voglia di portarsi dietro l'inutile peso della radio per collegarsi col campo base. Ormai ogni grammo portato deve essere solo di materiale indispensabile. Al VII campo sono stati trovati dei bastoncini di legno... qualcuno li allinea ora nella neve fra il VII e I'VIII campo, per eventuale nebbia. Si sta portando a compimento il vittorioso epilogo, ma ancora nessuno se ne rende conto, nessuno ancora lo sa. Forse nessuno può credere ormai in tanta fortuna... troppo tempo cattivo fino ad oggi! Si cerca di salire il più possibile... se sarà la cima, tanto meglio!

Nessuno si pone più l'interrogativo di chi dovrà andare in cima. Gli spostamenti e la selezione degli uomini avvengono automaticamente, spontaneamente... Ognuno può esserne designato, purché si senta in forze... A quest'altezza basta un nonnulla per dare maggiore energia o per troncare ogni vigore. Basta un cibo un po' indigesto, un peso allo stomaco, un mal di gola, per trasformare un uomo, non in un malato, ma in uno straccio... Due quattro respiratori salgono lentamente, di mano in mano... Sono portati da uomini che sanno ancora respirare senza ossigeno... Ogni respiratore pesa 18 chili. I due alpinisti più maturi portano, vicino al cuore, le bandierine di seta da legare alla piccozza... Nella stessa tasca, uno di essi porta una lettera del figlio: " Caro papà, ogni tanto mi sfiora il pensiero che non possiate riuscire nell'impresa e che qualcuno di voi possa non ritornare. Cerco di allontanare questo pensiero, pensando che tutto andrà bene grazie alla vostra organizzazione. Non ho la sicurezza di vederti vincitore, ma quella di vederti ritornare, sì. Un bacio... ".

Quasi tremila metri più in basso, ad una quota pari alla vetta del Monte Bianco, una voce ripete " Pronto, pronto, campo base chiama campo VIII. Passo! Passo! Pronto, pronto, campo base chiama campo VII. Passo! Passo! ". Inutili richiami che si ripetono da qualche giorno. Gli uomini sono ormai impegnati nell'azione finale, tagliati fuori dal mondo, isolati dagli stessi compagni sullo Sperone. E' in questi giorni che scatta l'ammirevole congegno dell'iniziativa personale, dell'autodisciplina che inserisce, al vertice di una piramide di sforzi condotti con metodo, e per lungo tempo, una serie di movimenti che hanno le caratteristiche di una razionale improvvisazione. Lassù, sulla " spalla ", il metodo pesante e sicuro non sarebbe più attuabile. I giorni di sole saranno pochissimi, forse si tratterrà di ore soltanto! Inconsapevoli ancora, ma desiderosi all'estremo che questi siano i giorni decisivi, gli uomini sulla " spalla " e gli immediati rincalzi al sommo dello Sperone compiono quegli spostamenti necessari ed essenziali per rendere possibile il tentativo, si stroncano polmoni e cuore per ricuperare i giorni perduti, per non recriminare lo spreco di un'ora sola che possa pregiudicare il risultato. Anche oggi a distanza di tempo, quando è facile e comodo parlare, trovare il modo di criticare, e fare gli " strateghi da tavolino ", consideriamo ancora ammirevole quel sincronismo di azioni, analizzabile, sotto una luce ed un aspetto tipicamente himalayani. Un epilogo che racchiude in sé, prese come unità di misura, un poco di tutte le precedenti conquiste degli " Ottomila ". La lunga salita, per l'allucinante distanza dall'ultimo campo, che contraddistinse la vittoria di Herzog e Lachenal all'Annapurna; il metodico procedere degli inglesi all'Everest con dovizia di mezzi, aiuto esuberante di sherpas e fortuna stabile di bel tempo; l'exploit solitario e bivacco alle stelle degli "8000" di Hermann Buhl al Nanga Parbat.

In questi giorni, ad opera di Rey, Viotto, Soldà, Floreanini, Abram, Bonatti, Gallotti, Lacedelli, e Compagnoni, vengono compiuti prodigi col preciso intento di gettare anche la vita se necessario, pur di raggiungere una vittoria comune. Al campo base si ignora tutto questo. Il collegamento radio avviene solo col IV campo e le notizie sono sempre in ritardo. Alle ore 17 del 31 luglio, Sadiq, il pakistano capo carovana dei portatori al campo base, asserisce di vedere due punti neri presso la vetta spostati a sinistra, sulle rocce. La distanza è di cinque chilometri. Nessuno gli dà ascolto. La via non è quella. Ad occhio nudo? Non è possibile. A quell'ora? Troppo tardi. Dopo qualche giorno sapremo che non solo è possibile, ma è anche vero. Quei due punti neri presso la vetta, ad un'ora così tarda, sono due uomini. Due uomini che fra poco doneranno all'attesa di ognuno la conclusione più splendida. Ma ecco lo svolgersi di quelle ore decisive.

30 luglio. Giornata limpida, piena di promesse. Bonatti e Gallotti scendono dal campo VIII verso il campo VII per portare in alto due respiratori lasciati, pochi giorni prima, vicino al campo VII. Dal settimo intanto partono Abram e i due Hunza Mahdi e Isahkahn con altro materiale. Proseguono tutti verso il campo VIII. Nel frattempo Compagnoni e Lacedelli, partiti dal campo VIII, prelevano il materiale lasciato il giorno precedente sopra i seracchi e salgono fino all'altezza di oltre ottomila metri. Sono giunti sotto le rocce a fianco del canalone nevoso che porta sotto i seracchi della calotta di vetta; per giungervi hanno attraversato pericolose placche inclinate ed in parte coperte da neve. Si preparano a bivaccare nella piccola tenda "Super K2" da due chili e mezzo (la " cassa da morto " come la chiama Achille) che hanno portato con loro. Si dispongono in quell'angusto spazio (campo IX), sciolgono neve e preparano camomilla a ripetizione. Dal campo VIII verso le tre del pomeriggio ripartono Bonatti, Abram e Mahdi portando a turno i respiratori verso il campo IX, sistemato nel frattempo da Lino e Achille. Si alternano in quel duro lavoro di trasporto e verso sera Abram rientra al campo VIII. E' questo il momento sublime della rinuncia, fatta con semplicità e piena coscienza: portare per gli altri ciò che agevolerà il cammino, portare per gli altri perché essi possano salire più riposati. Bonatti e Mahdi hanno calcolato di raggiungere il campo IX e bivaccare alla meglio assieme agli altri due, oppure di poter ridiscendere all' VIII. Ma il sole è già tramontato da molto tempo. Da sopra urlano di lasciare i carichi li, sulla neve. La traversata delle placche è troppo pericolosa. Sono già le 22. Il vento disperde le parole, soffoca i richiami, mentre le tenebre sono già scese. Piuttosto che affrontare un ritorno al buio fra le incognite dei crepacci verso il campo VIII, i due finiscono per bivaccare nella neve scavando una buca. Hanno forse in animo, non paghi di quanto hanno già fatto, di andare a " battere pista " il mattino seguente agli altri, fin dove possibile, oltre il campo IX? Cento metri più in alto, ignari, Lacedelli e Compagnoni fanno trascorrere le lunghe ore della veglia in attesa dell'alba. Bonatti, conoscitore di ogni segreto del bivacco, non si concede riposo, si tiene in continuo movimento onde mantenere viva la circolazione delle mani e piedi. L'hunza Mahdi sta farneticando in lingua incomprensibile e, per molto tempo, si rifiuta di togliere i ramponi. Alle tre del mattino la situazione si fa ancor più seria; vento e neve iniziano a flagellarli. Mahdi alle prime luci, dopo le cinque, scende verso il campo VIII. Poco più tardi, anche Bonatti lo segue giungendo fra i compagni alle 7, con un aspetto completamente normale e rassicurante. Anche al campo IX intanto è trascorsa la notte. Il mattino del 31 luglio, alle 4, Compagnoni e Lacedelli sono già in piedi. Alle 5 escono dalla tenda e scendono fino ai respiratori di ossigeno. Il tempo è coperto. Una pesante cappa di nubi è attorno al K2. Sotto i loro piedi è un mare di nebbia. Nulla che possa invitare a salire, anzi, tutto sembra invitare a desistere. Lino chiede: " Che ne pensi "? e Achille pronto: "Io dico di tentare!". In quelle poche parole è contenuta l'esasperazione di finire a tutti i costi, di concludere in un modo qualunque quella lunga fatica e lunghissima preparazione. In quella decisione di entrambi è il premio per tutti i compagni che fino a quel momento hanno lavorato con loro e per loro, è il pensiero stesso di Mario che per il medesimo motivo è morto. Ora sono tutti qui con loro... Se riusciranno, si potrà tener fede ad un tacito giuramento mai pronunciato: " se le mie forze mi sosterranno fino alla vetta, saprò dimenticare il mio nome per ricordare soltanto quello della Patria! "

31 luglio 1954, ore 18, sulla vetta della seconda montagna del mondo! Achille Compagnoni e Lino Lacedelli sono giunti, dopo 13 ore di salita, sul punto più alto con fatiche incredibili. Su di un percorso reso difficile da rocce ripide e da neve profonda e polverosa, hanno superato 550 metri di dislivello. Nell'ultima ora sono rimasti senza ossigeno. Sconcertati dalle reazioni fisiche provate per l'improvvisa mancanza, ripartono, increduli, di poter resistere. Sentono vicina, a tratti, la presenza invisibile di un'altra persona ed un richiamo irreale. Sulla vetta raggiunta ritrovano il sole che si appresta al tramonto. Sdraiati a terra si liberano finalmente dei pesanti respiratori. Estraggono le bandierine, si tolgono i guanti per poter annodare i sottili fili di seta alle piccozze. Scattano fotografie e girano 45 metri di film. Quattro minuti della vittoriosa sosta sono impressi per sempre in una documentazione splendida, unica nel suo genere, la prima eseguita sulla vetta di un "8000". Sono le ore 18.15, la stessa ora che coronò l'ansia e l'eroismo di una grandissima impresa, due secoli prima: Balmat e Paccard sulla vetta del M. Bianco. Al campo VIII, gli unici uomini vicini a Lacedelli e Compagnoni hanno trascorso in silenzio quelle ore della giornata. Un silenzio fatto di trepidazione e di attesa, poiché le parole non possono esprimere sufficientemente il sentimento di chi aspetta una grande vittoria. Attorno a loro permane la nebbia del mattino che li avvolge. Se almeno fosse sereno, uscirebbero dalle tende, guarderebbero in alto e potrebbero parlarne. Cosi possono seguirli solo con la fantasia ed immaginarli schiacciati ed oppressi dalla fatica, così come loro stessi lo sono dall'inerte attesa. Solo nel tardo pomeriggio, si diradano i vapori ed è l'Hunza Isahkahn, uscito di tenda, che se ne rende conto. Scuote gli alpinisti dal loro torpore esclamando: " One Sahib is ready to climb Kay Two! ". La traduzione è ancor più originale dello stesso inglese: Un alpinista è pronto per scalare il K2! Davvero grottesca questa semplicità linguistica! Bonatti, Gallotti ed Abram assistono a qualcosa senza riscontro nella loro vita di alpinisti: i due compagni, lassù, con lentissimo passo sono quasi in vetta. Per la bassissima temperatura e per il sole controluce dietro la montagna, le due figure appaiono aureolate. E' quel contorno luminoso dato frequentemente in montagna dalla irradiazione e dal pulviscolo nevoso portato dal vento e mosso dalle scarpe. Sulla vetta del K2, a 8611 metri d'altezza, il sole, declinante al tramonto, allunga le ombre degli uomini, che fin qui sono saliti sul versante già buio della montagna. Nell'ultimo tratto hanno dovuto fare una variante imprevista per seguire alcune coste di neve ventata più consistente senza timore di sprofondare ad ogni passo. Se ognuno fino ad oggi, senza sapere chi sarà il fortunato a raggiungere la vetta, si è prodigato fino al crollo completo delle forze, se qualcuno si è trascinato da un campo all'altro a quattro gambe, sfinito, stroncato, pur di portare ancora un carico in più, e più in alto, un carico forse essenziale e forse anche inutile; se con tempo continuamente avverso questa ideale piramide di uomini ha superato ogni previsione, bisogna pur riconoscere che essa è stata coronata al suo vertice dall'azione tenace ed eroica dei due che hanno concluso l'impresa. Un eroismo ben diverso da quello del soldato che va all'assalto in un momento di esaltazione, rapido nella concezione ed attuazione e tale da far considerare il rischio soltanto in minima parte. E' questo invece un eroismo fatto di coraggio consapevole, lento a maturare, lento nella effettuazione dei gesti, che corrode e logora portando, passo dietro passo, ad una fatica estrema. Un eroismo, che se presuppone in salita una meta, fa considerare ancor più duramente una micidiale, penosa discesa. Sulla vetta conquistata, i due uomini, sdraiati sul dorso, si tolgono i pesanti carichi. Si risveglia in loro una infantile estasi che li trattiene a lungo sulla vetta per guardarsi intorno e che attenua il desiderio di ritornare. Sui loro volti incrostati di ghiaccio e di piaghe, trasfigurati e gonfi per riverberi accecanti, si delinea un fanciullesco sorriso. Hanno vinto! I loro movimenti hanno la lentezza di un palombaro sul fondo. Nella loro retina si accumulano immagini di un regno abitualmente precluso all'uomo; sensazioni rare e non ripetibili li avvincono. Il sublime gioco in cui hanno puntato la loro stessa esistenza è concluso. L'inconsideratezza potrebbe iniziare fra qualche minuto. Poiché il freddo li sta artigliando lentamente. Sono con la mente al di là del mondo della ragione, ma sono anche lucidi, incredibilmente. Innalzano con le mani un mucchio di neve, vi posano la macchina da presa, e premono l'autoscatto. Entrambi saranno ripresi dall'obbiettivo. Sono insieme, uniti, vicini, sottobraccio, come due fratelli. Mai come in quel momento la vicendevole fraterna assistenza è brillata in tutto il suo splendore. Abbandonarsi quassù? Restare? Morire? Trovare qui, nella gloria, "la bella morte"? Oppure recare agli altri la lieta novella? Il sole sta per sparire; le ombre violacee di mille vallate salgono lungo le fiancate dei monti. La ragione riprende il sopravvento. "Scendere al più presto!". Un guanto è stato portato via da una ventata. Il compagno sacrifica subito uno dei suoi per darlo al fratello indifeso. Ed eccoli, al riapparire dell'idea del pericolo, del freddo e della notte incombente, delle insidie della discesa, ritornano sulle loro fronti le rughe che si erano spianate, il loro sorriso si trasforma di colpo. Anche il loro cuore depone ora quegli impulsi fanciulleschi che hanno dato loro l'illusione di essere, per breve tempo, senza memoria o cognizione di cose umane, gli unici due esseri viventi sulla terra. Quegli stessi impulsi, che nelle ultime ore di salita, aiutati dal fatale ingranaggio psichico degli ottomila metri, hanno fatto si che, con attenuata consapevolezza, non ricordassero altro che il " dover giungere " al punto più alto. Il loro animo ora si è acquietato. Hanno provato una gioia senza confini, e nel desiderio di esprimerla ad altri si sono accorti di non esser soli. Si sono ricordati di non essere creature staccate dal mondo, ma di essere uomini, di essere alpinisti di una Spedizione. Una Spedizione italiana. Ed in quel piccolo drappo colorato portato lassù hanno identificato i lineamenti dei loro cari, delle loro famiglie, di mille e mille volti anonimi che costituiscono la Patria, di milioni di persone che per loro avrebbero provato gioia e orgoglio. Come guerrieri in battaglia, essi hanno lottato e vinto, per l'ideale, per se stessi, ma anche soprattutto per coloro che in nulla credono, per i tiepidi, per i timorosi, per i vili. E' il momento in cui riaffiora al loro labbro una parola, con lo stesso angelico amore con cui l'appresero da fanciulli: Italia, Rammentano i compagni in attesa, quei compagni che proverebbero un invincibile dolore, se non li vedessero tornare. "Scendere al più presto!" ripetono a se stessi. E da qual momento ogni facoltà mentale è concentrata su cose minime di immenso valore: piccozza, corda, ramponi, sicurezza reciproca. Sono di nuovo uomini e non più semidei. Due uomini che hanno bisogno del calore, della parola e delle premure di altri compagni. Sono giunti quassù due rappresentanti delle Alpi Orientali ed Occidentali quasi a fondere due tecniche in una unica salita ideale. Quassù, resteranno due respiratori vuoti ed inutili; 40 chili di metallo a testimoniare per sempre la vittoria italiana. Le bandiere sventolano. La più bella pagina dell'alpinismo italiano si è chiusa. Per renderla più splendente, più viva e più luminosa anche il sole ha indugiato e li ha attesi sulla vetta. Dopo mezz'ora di sosta, iniziano il ritorno. Rientreranno al campo IX o giungeranno alI'VIII? Alle 23,15 dopo brevi richiami da sopra il campo e segnalazioni dalle tende con fiammate per indicare la posizione esatta, Lino ed Achille, i conquistatori, piombano di peso fra le braccia dei compagni. Si infilano dentro i sacchi piuma, senza neppur togliere le scarpe di renna! Nella discesa molte peripezie hanno rischiato di far concludere tragicamente la loro vittoriosa azione. Tre dita della mano sinistra di Achille sono in parte congelate: il pollice di Lino, dalla stessa parte, è annerito dal freddo, ma l'incredibile ormai, si è verificato: il K2 " è fatto "!



MARIO FANTIN